La concubina del levita: dove porta la lontananza da Dio

La concubina del levita: dove porta la lontananza da Dio

Degrado, perdita di identità e guerra: le conseguenze dell’idolatria

Prendiamo ancora una volta spunto dal Libro dei Giudici per indagare su alcuni aspetti che appaiono nell’Antico Testamento in riferimento al comportamento degli Israeliti, ma che fanno da preludio teologico al Cristianesimo.

Tutto il libro è indirizzato a fornire una chiara visione di quanto accade a Israele a mano a mano che essa si è allontanata da Dio, e lo ha perso come riferimento univoco. La storia narrata è così importante sotto questo aspetto esegetico, che alcuni studiosi hanno ritenuto che l’ultima parte, quella più cruenta e malvagia, sia stata scritta in età postuma per dare la giustificazione dell’avvento della monarchia, che arriverà con Saul e proseguirà con David e Salomone.

Dopo aver letto le gesta del peggiore tra i Giudici di Israele (Sansone), la narrazione non si ferma ma prosegue con alcune vicende che culminano con gli eventi relativi a un levita e alla sua concubina.

Il racconto ci presenta un levita che convive con una donna, definita Philegeš (moglie che vive ancora col padre, seconda moglie o moglie secondaria).

Questa donna abbandona il levita, ma i motivi per cui torna dal padre non sono chiari. La traduzione in greco la descrive «in collera», ma si possono anche sospettare atteggiamenti di tradimento coniugale o di obbligo alla prostituzione esercitato dal levita.

Sta di fatto che il levita si avvia verso Betlemme, paese della concubina, per «parlare al suo cuore».

Contrariamente a quanto ci si aspetti il padre della donna va incontro al levita e lo accoglie, non solo adempiendo a tutti gli obblighi dell’ospitalità, ma spingendosi oltre e insistendo che l’ospiti si trattenga oltre il terzo giorno prescritto, e fino al quinto. Non è chiaro se il padre voglia essere sicuro delle condizioni future della figlia, assicurandosi sulla buona fede del levita, ma l’esito della visita non fa supporre ciò. Nel racconto la concubina cessa di essere chiamata «donna» ma viene indicata come «giovane» (segno di perdita di autonomia). Il levita infatti parte al tramonto del quinto giorno e la concubina è indicata come fosse un bagaglio.

Alla sera stessa il levita decide di fermarsi a Gaba’a invece che a Gerusalemme, e di ciò si accorda col servo senza degnare di una parola la donna.

Arrivato nella cittadina incontra uno straniero di Efraim che lo ospita. Durante la notte un gruppo di gabaaiti si presenta per violentare lo straniero, e il levita getta con la forza la concubina in pasto agli strupratori.

La donna viene brutalmente abusata fino al mattino e riesce solo ad arrivare sulla soglia della casa del vecchio e muore.

Al mattino il levita non si accorge subito della morte e chiama la donna affinché si prepari alla partenza. Quando si avvede della morte la carica sull’asino e la porterà a casa, dove taglierà il cadavere in 12 pezzi che invierà alle 12 tribù di Israele.

OLtre all’immagine della crudeltà degli eventi, gli esegeti sottolineano molte antitesi rispetto alla parte iniziale del libro, in cui Acsa da oggetto diviene soggetto, acquista la parte di protagonista e esegue la volontà di Dio. La concubina è invece passiva fino alla morte.

I personaggi di questa vicenda sono tutti anonimi (l’identità è scomparsa) e questo vortice di violenza porterà alla guerra civile, in cui il nemico, oltre allo straniero, è anche il fratello.

Sono le evidenti conseguenze dell’allontanamento da Dio, del voler innalzare idoli (non solo immagini ma anche ideologie e tentazioni autoreferenziali) al posto di Dio.

Senza Dio Israele ha bisogno di un re, come continuamente sottolineato sul libro. Dio infatti non eleggerà più Giudici.

L’imprescindibilità da Dio si manifesta chiaramente, ma anche la sua pazienza e misericordia: non sempre interviene, ma quando si afferma la violenza dell’uomo sull’uomo, Dio non resta a guardare, come quando si tratta di far proseguire il messaggio di salvezza.

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