Le «tappe» della norma giuridica nel mondo pre-biblico e biblico
Il senso giuridico nell’Antichità del vicino oriente
Leggendo le Sacre Scritture ci si imbatte più volte sul senso di autorità della Legge. Questa è vista sotto un duplice aspetto: quello religioso, che fa riferimento alla Legge Divina, ma anche nell’accezione della regolamentazione delle vicende terrene.
Nell’Antichità, come ben sappiamo, vi era un’identificazione totale tra il re e la legge: non esisteva alcuna forma scritta, dapprima per l’assenza della scrittura, e poi per l’inutilità di formalizzare sanzioni, pene e giudizi, i quali erano demandati esclusivamente alle decisioni regali.
La prima legge scritta fu probabilmente il Codex Eshnunna, (il nome deriva dalla città-stato sumerica nella Bassa Mesopotamia, nei pressi dell’odierna Ba’quba) il quale stabiliva di fatto i rapporti economici e i “cambi ufficiali” della moneta (il siclo) contro argento o generi alimentari vari. Questa legge si occupava inoltre delle controversie economiche che potevano sorgere negli interscambi commerciali.
Dello stesso periodo è il noto Codice di Hammurrabi (che deve il nome al re il cui regno durò tra il 1810 e il 1750 a.C), che invece intervenne per mitigare rivalse atroci in punizione ai misfatti, introducendo un limite alle pene.
In ambito biblico-religioso troviamo delle disposizioni giuridiche nell’Esodo, e precisamente in Es 21,28-32. Qui si stabiliscono le sanzioni da adottare nel caso che un toro imbizzarrito assalisse una persona libera, oppure uno schiavo, o cose altrui. Il toro in questi casi andava lapidato (contromisura adottata per risolvere il pericolo immediato), mentre un ulteriore aspetto punitivo era il divieto di mangiarne le carni, e ciò per impedire che il proprietario ne avesse comunque un beneficio indiretto.
Come possiamo notare, in tutte queste normative Dio non è neppure nominato, e di conseguenza non viene considerato come giudice, redattore o legislatore, ma unicamente (al massimo) come garante e custode dell’ordinamento giuridico.
Da notare che il Libro dell’Esodo viene considerato come redatto in un’epoca molto successiva al Codex Eshnunna e al Codice di Hammurrabi, ed esattamente ben 1000 anni dopo.
Emerge successivamente l’importanza del Deuteronomio (letteralmente «seconda legge», da δεύτερος – deuteros – = secondo e νόμος – nomos – = legge). Si tratta praticamente di una nuova “edizione” dell’Esodo risalente ai tempi della riforma di Giosia (640 – 609 a.C).
Il Deuteronomio potrebbe essere il primo tra i libri biblici scritti su rotolo in pelle (pergamena), mentre fino a quel momento si privilegiava il papiro.
Giosia stabilì che il Dio di Israele, identificato col tetragramma sacro, è l’unico Dio, sancendo di fatto l’affermazione indiscutibile e esplicita del monoteismo ebraico. Inoltre precisava che il culto a Dio poteva essere eseguito esclusivamente a Gerusalemme, misura adottata per preservare la purezza e la unità del culto stesso. Questo aprì la divisione tra Samaritani e Giudei.
In ambito giuridico il Deuteronomio risentì letterariamente del vassallaggio al quale i neo-assiri assoggettavano le popolazioni dominate: tutte facoltà attribuite al Grande Re Assiro vennero trasferite al Dio di Israele, e il diritto stesso venne interpretato come originato da Dio.
Un’altra osservazione importante risiede nell’interpretazione della schiavitù, che è accettata come dato di fatto in Esodo, e comunque accettata, ma in modo critico, nel Deuteronomio. Solo nel Levitico (redatto successivamente, e probabilmente in fase di costruzione del secondo tempio dopo il ritorno dalla cattività babilonese) si ha la prima proibizione, ma solo relativamente ai componenti il popolo ebraico: essi non potevano essere schiavizzati dai loro confratelli.
Notiamo quindi che a essere normativa, in questa fase, non era la legge, ma la sua interpretazione.
Con l’avvento dei Babilonesi e successivamente dei Persiani, abbiamo le trascrizioni definitive dei testi biblici, in cui emerge la differenza tra il «mondo narrato» e il «mondo dei narratori». La redazione avvenuta in tempi post-esilici vede la Bibbia spiegare le condizioni del presente attraverso la trasposizione in un tempo idealizzato. In pratica si usa narrazione del passato per far emergere le difficoltà e/o le vicende che il popolo stava vivendo. Il rapporto con la legge era quindi strettamente legato a interpretazioni, contesto e cultura anche religiosa, e di conseguenza vincolato all’espressione o al rapporto (ora più, ora meno) diretto o indiretto con la divinità.